Don't die in the bush.

Le fotografie si trovano a fondo pagina

Una doverosa premessa: le nozioni esposte in queste pagine, così come quelle sull'uso delle piante velenose per la caccia e la pesca, hanno lo scopo di illustrare quei metodi di caccia he ho visto usare in tanti anni d'Africa dalle varie popolazioni ed hanno quindi carattere divulgativo. Tuttavia, il saper costruire un arco o una semplice trappola, può risultare estremamente utile o salvare la vita, qualora ci si trovi persi in un territorio disabitato e privi di soccorso ed è quindi materia del cosiddetto survival. E' ovvio che nessuno si sognerebbe di utilizzare simili sistemi di caccia, meno che meno un cacciatore. Sono metodi usati da popoli che sono costretti a difendersi o procacciarsi il cibo, disponendo di tecnologie povere o primitive o, al più, da bracconieri.

 

 

UN PO’ DI STORIA

 

I nostri antichi progenitori, che si trovarono non solo a dover sopravvivere e procurarsi il cibo in un ambiente inospitale, ma anche a difendersi da animali pericolosi e di grandi dimensioni, dopo essersi serviti di un semplice bastone, di un sasso o dell’osso di un grande animale, scoprirono che certe pietre, certi minerali, avevano la proprietà di fratturarsi lungo determinati piani, dando luogo ad oggetti dal bordo tagliente ed acuminato, durissimi e che dovettero ricordare loro, non poco, gli artigli di un felino, un’arma che sicuramente temevano ed invidiavano.

Ma prima di arrivare a padroneggiare una tecnica come quella di ottenere lame efficienti dalla selce, tecnica tutt’altro che facile, come constaterete se proverete a cimentarvi in tale attività (che vi porterà al turpiloquio se non possedete un self control a prova di bomba....o meglio, di dito ammaccato o tagliato), l’homo habilis dovette fare il suo frustrante tirocinio. E così, all’inizio, dovette accontentarsi di pezzi di roccia o ciottoli appena sbeccati, con una punta o un margine tagliente, ottenuto per tentativi, spaccando tonnellate di pietre, come galeotti, per ottenere, magari, un singolo sasso adatto allo scopo. 

Le rocce silicee hanno la caratteristica di essere molto dure e tendono a rompersi lungo dei piani, sotto l’azione di un urto, che però deve avvenire secondo una certa direzione.

L’ossidiana, poi, una lava solidificata, vetrosa e nera, genera, spezzandosi, dei bordi affilati come rasoi, tanto che, se osservati a forte ingrandimento, spesso sono più regolari del taglio di un bisturi. Se vi procurate un pezzo di ossidiana e  provate, come ho fatto io, a lavorarlo, scoprirete che le difficoltà diminuiscono un pelino, perchè tale minerale ( che è purissima silice) è sicuramente meno resistente ai colpi delle silici meno pure, ma più facile da fratturare in lame taglienti come coltelli.

L’ossidiana, in Italia, si trova abbastanza agevolmente in Sardegna ( anni fa un mio paziente sardo me ne portò una discreta quantità), oppure in isole vulcaniche come le Lipari, mentre le selci (meno pure) si possono trovare nel Gargano e nelle Marche ma anche in altre regioni.

Per chi volesse provare a giocare all’uomo delle caverne, tuttavia, il fare allenamento sul vetro, anche per non sbriciolare un mucchio di preziosa ossidiana, è una buona idea ( il vetro è silice, e molte punte di freccia antiche sono, per inciso, dei falsi ottenuti da volgare vetro nero). Vetro in “coaguli” più o meno grossi, si può trovare nelle officine o industrie vetrarie, dove possono avere scarti di vari colori e dimensioni.

Per lavorare ed affilare questi materiali ( pericolosi), i nostri progenitori non avevano occhiali protettivi ne’ guanti di pelle, ma se li avessero avuti sicuramente avrebbero smoccolato di meno.

Un appassionato del settore mi mostrò un trucchetto per rifinire l’ossidiana: la punta di un corno di cervo o di capriolo. Prima si tenta di rompere un pezzo di ossidiana con un normale sasso, in modo, possibilmente, da ottenere almeno una superficie piana, poi, via via, si cerca di ottenere qualche scheggia lunga almeno 4 cm e spessa mezzo cm. Solo allora, tenendo ferma la punta con un guanto di pelle, si passa a premere con forza ma progressivamente, con movimento di torsione, la punta di corno ( o di legno duro, tipo tasso), verso il bordo, per sagomarlo ed  affilarlo. Più difficile ancora è ottenere il gambo o peduncolo che serve ad ancorare la punta alla freccia. Indispensabile proteggere gli occhi e possibilmente indossare una tuta senza...fessure, perchè le schegge finiscono dappertutto... però è divertente.

Tornando ai nostri antenati, che ci hanno preceduti nel culto di Diana, vi sono testimonianze risalenti a circa 700.000 anni fa, quando la freccia ancora non esisteva ( risale a circa 12.000 anni or sono), tuttavia, da quando l’uomo si dedicò all’attività venatoria, il mito di colpire a distanza la preda e quindi, almeno illusoriamente, fuori portata dei suoi denti, artigli o corna, dovette essere uno dei sogni proibiti dei primi  cacciatori.

Svariate armi da getto si succedettero nei millenni e nei secoli, come il bastone da lancio degli antichi Egizi, con cui un abile cacciatore poteva abbattere uccelli in volo, il boomerang australiano, le bolas sudamericane, ma le armi per colpire a distanza che più ebbero successo furono ( e sono) la lancia ( che tuttavia non sempre è arma da getto), l’arco, con la successiva evoluzione della balestra, la frombola , la fionda e la cerbottana.

 

LA LANCIA

 

L’uomo primitivo, una volta “inventato” il primo coltello, che poteva essere una pietra con una parte priva di spigoli taglienti ed adatta ad essere fermamente impugnata, ed un’altra estremità appuntita o affilata, intuì che il poterlo usare contro animali pericolosi, tenendosi ad una certa distanza, era più salutare, per cui trovò il modo di fissarlo in punta ad un robusto bastone. Così nacque, credo, la progenitrice di tutte le lance del mondo.

Non essendo, come dicevo, un esperto di oplologia, lascio a persone più qualificate di me i dettagli sulla storia della lancia, ricordando solo come essa subì un’evoluzione continua, assumendo caratteristiche e dimensioni diverse in zone diverse del mondo ed a seconda dell’uso che se ne faceva. Le lance da guerra trovarono utilizzo presso tutti gli eserciti del globo: dalle lunghe aste delle falangi macedoni a quelle degli Immortali, le guardie scelte degli imperatori persiani, dal pilum delle legioni romane alle smisurate lance in legno brandite dai cavalieri medioevali , da quelle del famoso 77° lancieri del Bengala, una delle prime serie televisive che, negli anni ’50, deliziò, come me, migliaia di bambini, a quelle ancora usate in qualche gloriosa carica nell’era  moderna....

Ma è soprattutto la lancia da caccia che interessa noi appassionati e su queste, almeno su quelle usate in Africa, ho una maggiore esperienza, per averle viste in un’infinità di mani nere e per averle talvolta utilizzate.

Anche in campo venatorio, l’arma in asta andò incontro ad una continua evoluzione e presentò caratteristiche diverse per adattarsi ai vari terreni e tipologie di caccia, ed anche oggi è arma utilizzata da un gran numero di cacciatori che ad essa affidano la propria sopravvivenza.

Qualcuno potrà forse sorridere pensando, oggigiorno, nell’epoca delle armi più sofisticate, a tale arcaico attrezzo, ma posso garantire che una lancia ben costruita è un aggeggio efficientissimo.

A Ingwe ho una collezione di lance di varie popolazioni africane, delle più diverse fogge. Talvolta accade che accompagni qualche amico a cercare  antilopi, dandogli il mio fucile, oppure semplicemente ho lasciato la carabina a mia moglie, ed usciamo con una sola arma per difesa in due; ebbene, anche avendo a disposizione una pistola automatica in cal. 40S&W, ho sempre preferito una delle mie lance, in particolare una lancia Masai da leoni, la mia preferita, che acquistai molti anni fa da un moran, presso Simanjiro.

E’ composta da un’impugnatura in legno durissimo, annerito con un succo vegetale ricavato dalle radici di una pianta simile al magic guarry, che oltretutto lo impermeabilizza, fusiforme e molto corta ( e questo conferisce maggior robustezza), su cui si innestano, da una parte il codolo, un lungo puntale di ferro, adatto a piantarla nel terreno, dall’altra la lama, spessa e pesantissima, lunga 60 cm. ed affilata come un rasoio.

Si tratta di un’arma pesante, bilanciata e robusta, smontabile, e posso garantirvi che, in casi estremi, è ben più efficace, a distanza ravvicinata, di una pistola o di una rivoltella, anche di grosso calibro, e ben più intuitiva e facile da usare. Nell’eventualità ( quanto mai sgradita e, se possibile, da evitare con cura) di un attacco di leopardo o di altro animale pericoloso, fornisce una protezione assolutamente da non sottovalutare, tanto che i Masai, appunto, la utilizzano ( spesso con successo) per difendersi dai leoni, e posso garantire che impalarsi su tale lama non è innocuo neppure per il più grosso felino. In altre parole, se mi dovessi trovare in savana e, escluso il fucile, fossi obbligato a scegliere tra una pistola e la mia lancia, come arma da difesa, non avrei dubbi in proposito. Così come probabilmente preferirei alla pistola un arco, magari abbinato all’uso di frecce trattate (come vedremo), per procurarmi di che mangiare.....(non sto parlando, ovviamente, di una di quelle pistole da caccia con cannocchiale, che sono quasi dei fucili, ma di una normale pistola da difesa, anche potente).

Questa lancia, a differenza di molte altre utilizzate per cacciare, sarebbe, in realtà, un’arma da combattimento, ma proprio per questo più adatta alla difesa contro grossi animali. I Masai le usano in abbinamento con i loro scudi ovali in pelle, vivacemente colorati.

Le vere lance da caccia, con l’eccezione di certe lance da elefante, portano generalmente una lama più piccola e sono più leggere e snelle, adatte ad essere brandite con maggior agilità e, in alcuni casi, lanciate, anche se questo uso è più limitato. Nella foto potete vedere un’altra lancia che a volte porto con me e che è la mia seconda, in ordine di preferenza; più lunga e leggera, ma sempre con una lama grossa,  robusta e affilatissima.

Nella cultura Zulu, quella, tra i popoli africani, che meglio conosco, vi sono diversi tipi di lance.

Col termine di umkhonto di intende una lancia in generale (il famoso umkhonto wesizwe, il movimento di lotta nero che si battè contro l’apartheid, significava appunto “la lancia della nazione”).

Il classico assegai, la lancia da combattimento inventata da re Chaka, viene detto, più appropriatamente, iklwa ( il verbo lwa significa combattere), ed è un’arma con manico corto, che, da una parte, obbliga il combattente o ibhutho al corpo a corpo, dall’altra rende possibile colpire non solo di punta ma anche di fendente, come una spada, e porta una lama lunga e larga.

L’incusa è invece una lancia da getto, con lama affusolata, a foglia, e molto bilanciata.

L’ithatha presenta una lama barbellata,  atta a trattenere la preda ed è usata anche come arpione.

L’indlodlela è una lancia da caccia con lama piccola e l’ingwadla un altro tipo di arma in asta usata per la caccia e la difesa: una lama da assegai montata su asta lunga.

Lance delle più diverse fogge ho avuto modo di vedere in giro per il continente africano, ma le più belle ed elaborate le vidi, una volta, sul confine del Sudan meridionale, in mano ad una tribù nomade, e penso provenissero dall’Etiopia o dalla Somalia. Quel giorno incontrai un gruppo di neri in viaggio, dai tratti non Bantù bensì camitici, una strana carovana montata su ruote: tutti procedevano a piedi e si vedeva che il loro doveva essere un lungo viaggio, perchè il bagaglio era imponente. Camminavano tenendo per le orecchie delle coppie di vecchie e rugginose biciclette, che avrebbero fatto la gioia di un collezionista, perchè dovevano essere quasi antidiluviane, aggiogate, due a due, per mezzo di tralicci di bastoni e fil di ferro, a formare delle specie di quadricicli. Sull’intelaiatura era sistemato il carico, mentre, fissate ai telai, con semplici pezzi di camera d’aria, facevano bella mostra di se le lunghe lance, a portata di mano. Gli elastici erano avvolti in modo che bastava tirare un capo per avere prontamente l’arma disponibile. Le lame erano stranamente lunghe e strette, aggraziate come spade, e mi lasciò stupefatto il notare la damascatura, che doveva essere opera di qualche artigiano altamente specializzato, forse arabo.

Ho il sospetto che dette lame fossero originariamente lame di spada, razziate o comprate chissà dove ed adattate al loro nuovo compito. Purtroppo il laboratorio fotografico, in Italia,  perse parte delle diapositive che avevo scattato (incidente che ebbi purtroppo a lamentare abbastanza frequentemente  prima dell’avvento, benedette loro, delle fotografie digitali) e mi rimangono solo quelle di alcuni coltelli portati legati al braccio dagli uomini della tribù, oggetti anch’essi notevoli, anche per l’ingegnosità costruttiva , ed una specie di sciabola Galla

, che acquistai col sistema del baratto, dando in cambio un coltellino svizzero multiuso, con delle forbicine che mandarono letteralmente in estasi il poacher.

Sono anche in possesso di una strana lancia da elefanti, usata dai pigmei Baka ( vedi foto), di cui parlai in un precedente articolo sull’elefante, ma armi di tale tipo non sono frequenti in Africa ed anche i pigmei preferiscono insidiare il pachiderma con trappole e con frecce avvelenate, di cui parlerò in seguito, metodi certo meno cruenti ( per i cacciatori).

La caccia all’elefante con la lancia è un passatempo tipo la roulette russa e, dato che le genti africane sono poco inclini all’autolesionismo, ben poco frequente. Tuttavia, a parte i pigmei ( e anche qui, a parte la lancia di cui sono in possesso e le voci che ho ascoltato, non ho riscontri certi) specialisti in tale caccia erano, ai tempi di Samuel Baker, le tribù Baggara del Darfur, sul Nilo bianco. Due o tre cacciatori a cavallo, armati di lance di bambù lunghe quasi 4 metri, su cui erano inastate lame lunghe 35 cm.e larghe 8 cm., sfruttando la velocità delle cavalcature, isolavano un animale. Uno dei cavalieri provocava il pachiderma fino a farsi caricare ed inseguire, mantenendo il cavallo ad una velocità sufficiente a non farsi acchiappare, ma non tanto da distanziare e scoraggiare l’arrabbiatissimo jumbo, l’altro, o gli altri, lo raggiungevano da tergo e, abbassandosi, stile Sioux, dalla sella, gli piantavano la lancia nel ventre. Dopo di che era solo questione di seguire il poveraccio tenendosi fuori tiro della sua giusta ira ed aspettare che crollasse.

Questa tecnica, benché presentasse ovviamente dei rischi, era sicuramente meno suicida di un attacco alla baionetta al grido di “Savoia!” per cui penso possa essere stata utilizzata veramente, tuttavia le popolazioni africane che fanno uso di cavalli sono ben poche e quindi questo sport non è mai stato molto diffuso.

Lance da cinghiale sono state e forse vengono tuttora usate in Germania ed in altri paesi, spesso per finire un solengo ferito o messo alle strette dai cani, ed ho notizia di un cacciatore che si dedicava al giaguaro con un’apposita lancia e l’ausilio dei cani, ma, a parte questi impieghi sportivi, l’arma in asta è a tutt’oggi usatissima in tutto il mondo da popolazioni che vivono nella boscaglia, nella foresta, nella savana.

Un discorso a parte merita un parente stretto della lancia che, a differenza di questa, ha quasi sempre avuto un impiego esclusivamente venatorio: l’arpione.

 

 

L’ARPIONE 

 

Si tratta, in pratica, di una lancia con punta ( in metallo, legno indurito o osso) armata di  ardiglioni, atti a trattenere la preda. L’arpione è stato ed è tuttora usato per un’infinità di cacce

( le chiamo cacce, anche quando la preda è un pesce, perchè, a mio avviso, la pesca è un sistema diverso, forse meno “ aggressivo” di cattura e non implica il colpire l’animale con un’arma).

Dai primitivi arpioni preistorici al moderno arpione da squali, lanciato da un apposito fucile, con tanto di sagola, dal pesante whale-arpoon brandito dal capitano Akhab contro Moby-Dik, la balena bianca, al devastante arpione esplosivo per la caccia alle balene, propulso da un vero e proprio cannoncino, dalle lance “ barbellate” che tante volte ho visto usare in Africa su pesci anche di grande mole, come la perca africana o il vundu, agli arpioni da fucile subacqueo, questa versione della lancia è servita e serve tuttora non solo per catturare i pesci, ma anche cetacei e pinnipedi di grandi dimensioni .

Al di là della pura documentazione, alcune semplici nozioni di costruzione di attrezzi per caccia e difesa possono risultare utili a tutti coloro che, per hobby, si avventurano in regioni selvagge dove, senza stare a fare del romanzo, l’imprevisto è sempre possibile. Ogni anno qualcuno si perde e resta solo ed isolato in qualche remota area del globo, vuoi a causa di un incidente, vuoi per altro motivo, e molti sono sopravvissuti grazie a qualche conoscenza ed a spirito di adattamento.

E’ anche per questo motivo, e non solo a scopo “accademico”, che talora forse annoio chi mi legge con osservazioni su questa o quella pianta, o su certi usi e costumi delle popolazioni tribali, o su qualche aggeggio che ho visto utilizzare, oppure sulle caratteristiche di certe sostanze, anziché parlare solo di caccia pura e semplice. Ma la caccia è anche questo, dopotutto: fare esperienze, viaggiare, conoscere, entrare sempre più in sintonia con quegli ambienti selvaggi che ci attraggono come una calamita....

Un po’ a causa di una mia patologica curiosità, ma soprattutto perchè, in tanti anni di Africa, mi è accaduto di rendermi conto di quanto fragile sia il nostro bozzolo tecnologico, che ora può esserci e magari tra dieci minuti andar perso, di quanto sia facile smarrirsi o trovarsi in situazioni impreviste, ho maturato la convinzione che imparare qualche cosa dagli uomini della boscaglia, non sia tempo perso, e questo credo valga non solo per l’Africa. Inoltre è anche gratificante. Avere un’idea di come farsi un arco, una trappola, un amo ( nelle foto  si può vedere un amo di fortuna ricavato da un chiodo, per pescare i siluridi Vundu, che costruì un mio amico mentre eravamo in foresta), di come ottenere cibo da certe piante, di come ricavare acqua da un baobab, oppure da una palma o da una amanzi ihlahla, la liana della vita , è non solo interessante, ma utilissimo.

Un semplice arpione non è difficile da costruire. In molti specchi d’acqua, in Africa e altrove, la fauna ittica è presente ed abbondante ed una silenziosa attesa in agguato, in una zona d’ombra, evitando di riflettere la propria immagine nell’acqua, con un semplice arpione, può significare la differenza tra pancia piena e pancia vuota e rivelarsi più facile che cacciare. Un pesce, un varano, una grossa rana, sono carne commestibile.

Un bastone robusto e di lunghezza adeguata, che rechi, ad un’estremità, una certa curvatura,  non è certo difficile da trovare. Il passo successivo è procurarsi l’ardiglione, che può essere un pezzo di metallo, una lunga spina dritta di acacia, cui si sia fatta la punta anche dalla parte basale (certe spine sono lunghe 10 cm), un osso aguzzo (ricordare sempre che, a meno di essere in emergenza, le ossa trovate in savana non andrebbero mai toccate, perchè le spore del carbonchio, malattia non rara tra i selvatici, vive per anni anche nelle ossa spolpate e calcinate dal sole tropicale). Io ho costruito arpioni con aculei di istrice, che in certe zone sono comunissimi, e li ho usati per recuperare degli iraci, tirati con la 22 e andati a morire in un crepaccio. Bisogna scegliere un aculeo di quelli corti e tozzi, di una lunghezza tra i 12 ed i 20 cm. . Gli aculei sono appuntiti da entrambe le parti, e robustissimi. La punta andrà legata con ciò che si ha a disposizione ( spago, filo “tirato via” da un indumento, una stringa, corteccia, fibre vegetali, nastro isolante) all’estremità del bastone, al termine della curvatura “a onda”, in modo che una punta sporga in avanti, con la funzione di trafiggere il pesce, e l’altra sporga all’indietro, con la funzione di trattenerlo.

A proposito degli iraci, approfitto per illustrare un ingegnoso sistema che ho visto usare in Mozambico, Zimbabwe e nel Limpopo, per catturare questi animali, così simili a marmotte ma imparentati alla lontana con gli elefanti, quando non si abbia a disposizione una 22.

Individuata la crepa dove l’animale si è rifugiato, sempre che si tratti di un crepaccio rettilineo, viene introdotto nel buco uno strano arnese: una lunga canna elastica, la cui estremità è stata incisa per il lungo. Le due branche che ne risultano vengono rese scabre o dentellate nella parte interna, con piccole incisioni che creano degli “scalini” o indentature. Occorre, evidentemente, una certa sensibilità per portare a buon fine l’operazione, ma il concetto è il seguente: quando la punta arriva a contatto con il corpo del dassie, che non può inoltrarsi più in profondità nell’anfratto, il cacciatore spinge la canna contro il corpo, facendo divaricare leggermente le punte ed affondandole nella pelliccia. Poi esercita una torsione, pizzicando e torcendo un ciuffo di peli o la pelle, come se si trattasse di una forchettata di spaghetti alla puttanesca, e contemporaneamente tira verso di se, estraendo la bestiola come una lumaca dal guscio.

 

 

 

 

IL PROPULSORE

 

Il cosiddetto propulsore è l’antenato di tutte le armi “ da tiro”, ed è molto più antico dell’arco.

Pare che i primi propulsori siano apparsi tra i 30.000 ed i 40.000 anni fa, ma sicuramente tale arnese si diffuse praticamente in tutto il mondo allora abitato, ad eccezione dell’Africa, circa 18.000 anni or sono .

Il propulsore altro non è se non un bastone dotato di un gancio ad un’estremità, che funge da leva, per incrementare lo slancio del braccio, come un moltiplicatore. La zagaglia porta, allo stesso scopo, un’intaccatura o altro sistema di ancoraggio, che si impegna nel gancio del propulsore.

Il cacciatore impugna la zagaglia a braccio teso all’indietro, reggendo nella mano sia la coda della lancia che l’impugnatura del propulsore: all’atto del lancio, il braccio viene portato velocemente in avanti, l’asta viene rilasciata e la mano spinge, come se fosse una racchetta da tennis, il propulsore che, come una fionda, imprime al proiettile una velocità notevole.

Ho provato questo attrezzo e devo dire che ne sono rimasto impressionato, anche se, a onor del vero, non sarei riuscito a colpire neppure un bidone . E’ ovvio che, per acquisire abilità e mira, necessarie a colpire una preda o un bersaglio, occorre un allenamento serio, tuttavia la potenza ed il raggio d’azione sono a dir poco stupefacenti.

Tanto per dare un’idea delle potenzialità di un’arma, tutto sommato, preistorica e semplice da assemblare, come questa, con una zagaglia ed un propulsore...rustici, cioè costruiti con materiali grezzi e con tecniche arcaiche, si può scagliare il proiettile fino a distanze dell’ordine dei 60/120 metri, ma ho letto di gare di distanza con materiali moderni (carbonio, fibra di vetro, alluminio) dove sono stati raggiunti i 260 metri! Stante la densità sezionale di proietti stretti e lunghi, come una lancia od una freccia, la penetrazione è a dir poco terrificante e di questo parlerò quando accennerò alla cerbottana che uso talvolta in Africa.

Maya ed Aztechi  stupirono spiacevolmente i conquistadores, forando, con le loro lance dotate di impennaggio posteriore e scagliate con l’ausilio di un propulsore chiamato atl-atl, le armature in ferro e cuoio dei soldati spagnoli. Che ci rimanevano malissimo.

La lancia scagliata da propulsore viene solitamente chiamata zagaglia e pare che anche tribù pellerossa ne abbiano fatto uso.

Ancora oggigiorno ( parlo di un po’ di anni fa, a dire il vero, ma non della preistoria), questo rivoluzionario sistema di tiro l’ho visto usare, quando cacciai l’orso polare ed i buoi muschiati, da un gruppo di cacciatori Inuit, che lo chiamavano Norsaq. Questi cacciatori dell’artico lo impiegavano nelle cacce tradizionali che solo loro avevano il permesso di intraprendere, ma, come mi spiegò allora la mia conduttrice di cani da slitta, una donna  Inuk, solo con mezzi tradizionali. Si trattava di una deroga, evidentemente concessa per favorire la conservazione di usi e tradizioni vecchi di secoli. Assistetti, pagaiando in un kayak in pelle di foca, che non mi dava una gran sensazione di sicurezza e stabilità, alla cattura di un globicefalo, una balena di circa 7 metri di lunghezza, ed ebbi la sensazione, travolgente e quasi onirica, di essere precipitato indietro nel tempo: una caccia senz’altro cruda e sanguinosa, ben diversa dal pulito colpo di fucile, ma a suo modo affascinante e terribile. La strenua lotta del cetaceo crivellato di aste, che trascinava come motoscafi le piccole imbarcazioni, soffiando dagli sfiatatoi nuvole di sangue rosato, è una scena che mai dimenticherò e che sinceramente mi ha impressionato e lasciato una sensazione di tristezza.

Altra popolazione che ancora usa il propulsore è quella degli aborigeni australiani, che lo chiamano woomera.

 

L’ARCO

 

L’arco e la freccia sono stati, forse dopo la lancia, l’arma per colpire a distanza più diffusa nel mondo. Fino a non molto tempo fa, uno degli assiomi più radicati era che l’arco era stato utilizzato in tutti i paesi del mondo ad eccezione dell’Australia.

Questo finchè non venne scoperta, come ebbi a leggere in un articolo molto interessante, la citazione dell’uso di arco e frecce da parte di tribù australiane, in un’opera di Wood “ The natural history of man”. Pare che in quel continente tale arma potrebbe essere arrivata, così come le piroghe con bilanciere, addirittura dalle lontane isole della Polinesia.

Per rimanere nel Nuovissimo mondo, invece, era risaputo che in Papua Nuova Guinea l’arco e le frecce erano molto utilizzati e, anzi, uno studioso australiano, l’etnologo Peter White, dimostrò con foto e filmati, negli anni ’60, che sugli altopiani interni della Nuova Guinea, i Duna non solo costruivano archi simili a quelli del nostro   Neolitico, ma utilizzavano, per costruirli, strumenti tipici del Neolitico stesso, in pietra silicea.

Questi due fatti, e cioè la strabiliante somiglianza nei metodi costruttivi degli archi più primitivi e la stessa invenzione dell’arco come arma, in ere lontanissime e in popolazioni che non potevano avere contatti tra loro, mi fa pensare al fenomeno noto in zoologia come convergenza evolutiva. Per fare due esempi: i colibri del Sud America ed i nettarinidi o sun-birds africani, appartengono a due famiglie di volatili totalmente separate, tuttavia, occupando, in continenti diversi, la stessa nicchia ecologica ( succhiano il nettare), hanno sviluppato forme, colori, caratteristiche molto simili. Lo stesso accade per la vipera della morte australiana: in quel continente tutte le specie velenose (che superano come numero quelle innocue) appartengono agli elapidi ( come cobra e mamba), rettili solitamente snelli, con testa poco differenziata dal collo, rapidi nei movimenti, tuttavia la death adder ( che non è una vipera ma un elapide come gli altri) ha assunto le stesse caratteristiche di un viperide ( tozza, lenta, testa triangolare e ben distinta). Diciamo che è andata ad occupare, in un continente dove le vipere non ci sono, la nicchia ecologica lasciata vacante.

Alcuni studiosi fanno risalire la storia dell’arco a 12.000 anni fa, e, già a quel tempo, la loro costruzione, con attrezzi di pietra, era un’impresa notevole e tutt’altro che facile.

Tuttavia altri studiosi pensano che tale arma sia in realtà più antica. Nelle grotte di Altamura, in Spagna, vi sono pitture rupestri che lo raffigurano in mano a cacciatori e nel Sahara pare siano state rinvenute punte di freccia datate a 50000 anni fa. Io, non essendo un esperto, lascio l’ardua sentenza a persone più qualificate, tuttavia la storia “certa” di tale arma è vecchia all’incirca di 12000 anni.

Tra le altre cose, nelle pitture rupestri che scoprimmo nella mia riserva di Ingwe, sono raffigurati cacciatori Boscimani che tirano, da inginocchiati, con l’arco , ed un esperto di Pretoria, che invitammo a vedere le pitture, affermò che tali opere sono molto ma molto antiche.

Un arco ben conservato, in olmo, con sezione a D, è stato rinvenuto in Danimarca e datato tra i 5000 e gli 8000 anni, ma una scoperta più recente, di cui tutti sono al corrente, è quella dell’uomo di  Similaun, un cacciatore preistorico armato di arco e frecce, queste ultime con punte in corno di cervide, la cui mummia risale a circa 5000 anni fa.

Il suo arco, molto lungo, era in legno di tasso e, all’apparenza, piuttosto potente.

Con lo scorrere dei secoli e della storia dell’uomo, l’arco e la freccia subirono cambiamenti e perfezionamenti e l’arma si differenziò a seconda dei popoli e delle regioni in cui veniva costruita.

E’ una storia affascinante che è un po’ la storia stessa dell’uomo.

I faraoni dell’antico Egitto usavano cacciare dal carro i più svariati animali, servendosi di archi, solitamente in legno d’acacia ( uno dei legni più utilizzati anche oggi, in Africa): gli archi ritrovati nelle tombe dei sovrani d’Egitto sono piuttosto fragili e rinforzati con legature, che servivano a  mantenere compatte le fibre del legno.

I Persiani furono uno dei popoli che più diedero importanza all’arco, anche come arma da guerra, e lo perfezionarono a livelli che, a quell’epoca, erano sconosciuti in gran parte del mondo.

Si trattava di archi compositi, a differenza di quelli dell’Europa e dell’Africa, cioè costruiti abbinando materiali diversi.

Erano inoltre archi ricurvi, la tipologia che fornisce più potenza, ben più dell’arco dritto: al legno si associava l’uso di tendini di animali, specie sul dorso, per aumentare la forza di raddrizzamento.

Gli antichi Greci, gli Achei di cui abbiamo letto, da ragazzi, nell’Iliade e nell’Odissea, usavano anch’essi archi ricurvi, con impugnatura rientrante rispetto ai “limbs”, per fornire maggior potenza ed erano costruiti, spesso, con corni di capra selvatica.

Il mondo greco, grazie ai commerci e contatti frequenti con popoli asiatici, aveva acquisito l’uso di archi tipici dell’oriente. Il famoso arco di Ulisse, con cui l’eroe sterminò i Proci, doveva essere di questo tipo: un arco riflesso, simile a quelli turchi ed asiatici. Una coppia di corna, di forma idonea, veniva tagliata per il lungo, e la parte anteriore, sagomata a caldo, forniva i limbs , che poi venivano rinforzati con tendini di animale. Questi archi erano potenti e veloci, anche se forse avevano portata inferiore di quella di archi più lunghi e in legno, ma richiedevano maggiori cure degli archi lignei. Quando l’arco veniva caricato, in pratica quando veniva applicata la corda, l’arma andava scaldata, facendo attenzione a non rovinare col calore la parte rinforzata con tendini. Il calore serviva ad ammorbidire la cheratina del corno, che così era più facile da piegare, per poi riprendere, una volta raffreddatasi, la preesistente rigidità.

I Romani avevano imparato a proprie spese ad apprezzare l’arco, arma che, all’inizio, non era considerata importante nell’esercito, ma usata più dai cacciatori. La batosta subita dalle legioni di Crasso nel 53 A.C. ad opera dei Parti fu illuminante. Gli arcieri a cavallo della cavalleria catafratta inchiodarono letteralmente i legionari sotto una pioggia di frecce, scagliate dai loro potenti archi ricurvi di tipo asiatico. In seguito, anche l’esercito romano si risolse a creare corpi di sagittarii, che, inizialmente, vennero reclutati nelle province orientali e soprattutto in Tracia, dove l’uso dell’arco era diffuso.

Poi, con l’Impero d’oriente, venne il famoso arco bizantino ed i romani d’oriente mutuarono dalle popolazioni nomadi delle steppe asiatiche, come Unni ed Avari, l’uso di archi compositi e ricurvi, che perfezionarono fino a livelli di eccellenza.

I popoli nomadi cui accennavo, tra l’altro, avevano sviluppato tecniche di arcieria a cavallo, aiutati anche dall’invenzione della staffa, finitura che in Europa ancora nessuno utilizzava.

Un doveroso cenno merita poi il famoso longbow, l’arco di Robin Hood, l’umile arma dei contadini e dei cacciatori, che fece la grandezza del Regno d’Inghilterra.

L’arco lungo medioevale, che nacque un pò dopo l’anno mille, aveva, in realtà, avuto un antenato: l’arco sassone. Già tra il 400 ed il 500 D.C., queste popolazioni usavano archi lunghi fino a 190 cm, costruiti in legno di tasso, uno dei più pregiati, alcuni dei quali vennero ritrovati, insieme ad un buon numero di frecce, nei resti di una nave recuperata nel lago di Sleswig.

I Gallesi erano maestri nell’arte dell’arcieria, sia per quanto riguardava la caccia che la guerra, ed i conquistatori Normanni, che utilizzavano archi più corti e meno potenti, ben presto iniziarono ad assoldarli.

Verso il 1270 l’arco lungo subì una serie di perfezionamenti che ne portarono la gittata fino a 250 metri, con frecce pesanti, e 300 metri con frecce leggere. Stiamo parlando di portate superiori a quelle dei fucili dell’epoca napoleonica, specie quanto a precisione ed efficacia, ed a cadenze di tiro impossibili per gli avancarica. Migliaia di frecce che piovevano su tutto il fronte, rendevano un’avanzata simile ad un suicidio collettivo, come trovarsi sotto il fuoco di mitragliatrici....ed in effetti gli arcieri erano un po’ i mitraglieri dell’epoca.

Spesso gli arcieri, che non erano mai nobili o di buona famiglia, erano contadini, bracconieri o briganti, cui venivano perdonati determinati crimini in cambio dei loro servigi. Conoscevano bene i boschi e le brughiere e questo, unitamente al fatto che molti arcieri venivano dal Nottinghamshire, diede origine alla leggenda di Robin Hood, il bandito gentiluomo, una sorta di Passator cortese, re della strada, re della foresta.

Un buon arciere era in grado di scagliare fino a 12 frecce al minuto ad una distanza di 250 metri e questo spiega l’efficacia dell’esercito Inglese. I Francesi, presuntuosamente, sottovalutarono spesso questi reparti, considerati, con spregio, non nobili, e, come spesso accade quando ci si sopravvaluta, la pagarono cara, nella guerra dei cent’anni.

Nella battaglia di Crecy, 38.000 francesi, tra cui 6.000 balestrieri, si scontrarono con 21.000 inglesi e furono annientati. Pare che solo 50 inglesi morirono, mentre, tra le file del giglio, più di 1500 nobili cavalieri furono abbattuti, per lo più da soldati considerati, con un certo disprezzo, rozzi popolani o bifolchi. Il fatto è che tali rozzi contadini e cacciatori si rivelarono un’arma ben più letale, con i loro archi “fatti in casa”, delle corazze e delle armi raffinate e taglienti, forgiate dai migliori armaioli del tempo. Nella battaglia di Poitiers, 7000 inglesi, supportati dagli arcieri, combatterono contro 16.000 francesi, che furono annientati, con 2500 morti, mentre il re stesso e suo figlio vennero catturati .

Ad Agincourt, l’esercito francese, quattro volte più numeroso, subì un’ennesima umiliazione: la cavalleria francese, che, nella sua presunzione, non aveva imparato nulla dalle batoste precedenti, caricò sprezzantemente i...bifolchi, con risultati disastrosi. Pare che i caduti inglesi siano stati poco oltre i 100, contro 10.000 morti sul fronte opposto.

Nell’epopea western e nei film che tante volte abbiamo visti e rivisti, i pellerossa d’America appaiono come valenti arcieri. Le mie conoscenze dell’argomento sono molto povere, per non dire nulle, ma voglio citare un arco stranissimo di cui vidi, una volta, una riproduzione fatta da un artigiano: l’arco Penobscot. I Penobscot erano una tribù, o meglio, nazione indiana, che viveva nelle stesse zone abitate dagli Irochesi, ed avevano sviluppato quello che credo sia l’antenato dei moderni archi compund. In pratica si trattava di due archi curvi assemblati dorso contro dorso e uniti a livello dell’impugnatura. L’arco più grande e potente aveva la sua brava corda e veniva impugnato normalmente e flesso, ma, al momento della flessione, i limbs dell’arco secondario, che non portavano, a loro volta la corda, ma che erano collegati tramite due corde a quelli del principale, aumentavano enormemente lo sforzo di trazione e la potenza.

Due ulteriori evoluzioni dell’arco, che cito solo per amor di cronaca, sono la balestra , che tutti conoscono e l’arco pallottaio.

Quest’ultimo comparve probabilmente nel Medioevo, ed era un’arma eminentemente da caccia. Poteva lanciare pallottole sferiche, fatte solitamente di argilla indurita, oppure ciottoli, con forza sufficiente a stordire o uccidere uccelli e piccoli animali, al massimo della taglia di uno scoiattolo.

Nella laguna veneta era di moda, tra i nobili, cacciare gli anatidi con archi e balestre pallottai, come illustrato in un dipinto dell’epoca  a soggetto venatorio. La corda, sdoppiata, portava una sede per la pallottola, solitamente in pelle, come quella delle fionde, ma mirare non doveva essere cosa facile. Quando apparve la balestra pallottaia, essa consentì maggiore potenza e precisione, tanto che esistevano dei bandi che ne regolamentavano l’uso, specie sui colombi, che erano, a quanto pare, i volatili che più ne facevano le spese: probabilmente anche un buon numero di piccioni domestici o viaggiatori finivano sotto i colpi della contraerea.

Mentre tale arma cadde, da noi, in disuso abbastanza rapidamente, rimase invece utilizzata ( e forse lo è ancora) in Asia, dove spesso tali archi sono in bambu.

La sede in pelle per il proiettile era solitamente posta, sulla doppia corda, un po’ più in alto dell’impugnatura, per evitare che la pallottola colpisse la mano, che comunque era protetta da un robusto guanto in pelle. Le due corde venivano mantenute a distanza l’una dall’altra da pioletti in legno. In certi archi pallottai asiatici (Cambogia) di cui vidi un esemplare in non ricordo più quale museo, la corda doppia era sostituita da una sorta di larga “ cinghia” di fibra vegetale o di pelle.

 

GLI ARCHI AFRICANI

 

Molte popolazioni africane usano estensivamente l’arco, specie per la caccia, ma anche come arma da guerra. Non ho mai visto, in Africa, un arco che non fosse del tipo curvo, ad una sola curvatura, e, tranne due eccezioni, di cui parlerò, tutti semplici, ossia in un solo materiale; il legno.

La prima eccezione, e cioè un arco composito, la vidi in mano ad un bracconiere sudanese.

Quel giorno, l’incontro con una banda di tali “professionisti”, rischiò, all’inizio, di essere piuttosto burrascoso. Avevano ucciso un bushbuck ed il nostro arrivo li sorprese ( ero sulle tracce di un bufalo ferito e procedevamo con...passo felpato) e li spaventò. E innervosì anche i nostri tracciatori, me ed il mio compagno di caccia.

Uno di loro si volse verso di noi e incoccò una freccia sul suo lungo arco, senza tuttavia puntarlo contro di noi direttamente, forse trattenuto dal fatto che io ed il mio amico avevamo in mano un grosso banduku, con un grosso buco in cima.

Il tracciatore che avevo di fianco mi mormorò che la freccia era avvelenata, ed un sudorino freddo cominciò a scendermi giù per la schiena. Provai ad alzare una mano nell’universale gesto di pace, e la cosa funzionò, perchè vidi che la cricca si rilassava e che la freccia veniva riposta ( con attenzione, il che confermava le parole del nero circa il veleno) nella faretra. In pochi minuti quasi si fraternizzava e persino giungemmo all’accordo ( che avremmo poi sfruttato diverse altre volte che, una volta che io avessi abbattuto il bufalo, avremmo lasciato gran parte della carne a loro in cambio del loro aiuto come portatori, per trasportare al Toyota, distante quattro ore buone di marcia, trofeo, filetti e una bella coscia per la pentola.

Nel frattempo chiesi, a gesti, al cacciatore nero, di vedere il suo arco. Era un arco in legno di acacia, lungo circa 150 cm. e, come la gran maggioranza degli archi africani, non pareva molto potente. Ma quando lo tesi, riscontrai che doveva essere almeno un 40 libbre. La parte centrale era avvolta in strisce di pelle che, a guardare con maggior attenzione, trattenevano, applicata al “ ventre” dell’arco, una lamina di metallo flessibile, che ne aumentava la potenza. Insomma, un arco composito.

Il secondo esempio di arco composito lo vidi in un villaggio zambiano. L’arco, in legno, era rinforzato  sul dorso, questa volta con tendini di animale.

Nella maggioranza dei casi, l’arco africano è a sezione tonda (gli archi a sezione tonda sono i meno performanti e duraturi, ma sono anche quelli più semplici da costruire), di forma  fusiforme, sovente con la parte centrale molto spessa rispetto alle estremità, piuttosto fini. E’, di solito, abbastanza dritto, ma non mancano eccezioni, come il piccolo arco da trappola della foto notare il sistema di scatto collegato ad un filo teso attraverso il sentiero ), molto curvo e di piccole dimensioni, trattandosi di un arco da foresta, da impostare a scatto in fitto sottobosco. Nelle trappole con arco, spesso vengono usati archi normali che, all’occasione, vengono piazzati lungo un sentiero o un passaggio abituale della selvaggina, ma talvolta vengono costruiti, a bella posta, archi specialistici. Questi ultimi non richiedono ne’ grandi dimensioni ne’ grandi potenze: la freccia, solitamente avvelenata, deve colpire a brevissima distanza ( da 1 metro a 3 metri) e basta che la lama penetri un po’ nella preda perchè il veleno faccia effetto. I popoli di ceppo N’guni ( gli Zulu, i Xhosa, i northern Sotho ecc) chiamano questo modo di cacciare umnsalo zulumba cioè: arco in agguato.

Per inciso, in zone dove tali trappole vengono usate, andarsene a zonzo è pericoloso, quindi è utile informarsi, nei villaggi, in quanto una freccia avvelenata significa andarsene al creatore molto in fretta ed in malo modo, ed è già successo.

Gli Zulu non hanno mai fatto un uso intensivo dell’arco per la guerra, anche perchè la filosofia guerriera di re Chaka ed il culto, persino esasperato, del coraggio e della forza, l’isibindi

 ( letteralmente fegato, ma anche coraggio, valore), ha sempre spinto il guerriero a privilegiare il corpo a corpo, ed armi come l’assegai o iklwa oppure la mazza da combattimento.

L’arco, quindi, è sempre stata un’arma prevalentemente da caccia e umnsalo nemicibisholo, arco e frecce, sono sempre state corredo dell’umzingeli, il cacciatore più che del guerriero.

 

 

COSTRUIRSI UN ARCO D’EMERGENZA

 

Perchè no?

Facciamo finta di esserci perduti in una landa desolata.

Io propendo per l’Africa, ma potrebbe essere l’Alaska, la Lapponia finlandese, la taiga russa. Non abbiamo la nostra amata carabina con noi ed abbiamo una fame barbina. Abbiamo visto degli animali, commestibilissimi, che ci hanno fatto venire l’acquolina in bocca, già che da tre giorni non mettiamo niente sotto i denti, ma, accidenti a loro, non hanno nessuna voglia di lasciarsi prendere. E allora? Morire di fame per morire di fame, perchè non provare a costruirci un’arma da caccia? Magari saremo talmente fortunati, nascondendoci magari presso un punto d’acqua, da acchiappare qualcosa; la pazienza di attendere per ore, immobili, essendo cacciatori, non ci manca, e l’appetito ci aiuterà...

A parte le trappole, di cui parlerò in seguito, una delle migliori e più efficienti “armi semplici” è proprio il caro, vecchio arco.

Ci sono molti appassionati che costruiscono archi “primitivi” per hobby, spesso addirittura  utilizzando non già attrezzi moderni ma utensili autocostruiti, come quelli dell’epoca, per riprodurre esattamente le condizioni in cui si trovava un costruttore di archi dell’antichità, ed alcuni sono veramente dei maestri. Probabilmente, se qualcuno di loro leggesse queste righe, gli verrebbe un coccolone e sbufferebbe, indignato, ma il fatto è che io, purtroppo, non sono un esperto ....archigiano e sto parlando di un arco di emergenza, alla portata di chiunque, anche mia.

La prima cosa che ci serve è un ramo, che scortecceremo a dovere. Un ramo tagliato avrà, inevitabilmente, un’estremità più grossa ed una più sottile, ed a questo occorrerà ovviare, almeno parzialmente, se si desidera avere un arco almeno decentemente bilanciato. Con un coltello ( se saremo stati così scalognati da non avere con noi neppure quello, occorrerà usare una pietra ruvida o tagliente, ma sarà un lavoro da Sisisfo) assottiglieremo progressivamente l’estremità più robusta del ramo che costituirà, in ogni caso, il limb inferiore.

Il passo successivo sarà ricavare, alle estremità dei limbs, le intaccature per la corda. Se il ramo è così compiacente e collaborante da avere, all’apice, una biforcazione, magari rinforzata da un nodo ligneo, sfrutteremo quella. Se possibile, si procederà poi a levigare il legno con il coltello

( o la pietra).

Trovato il centro dell’attrezzo, faremo un piccolo segno e poi impugneremo l’arco, con la sinistra se siamo destri e con la destra se siamo mancini, in maniera che il segno venga a trovarsi tra indice e medio. A questo punto, segniamo i punti corrispondenti all’estremità superiore ed inferiore della mano: questa sarà l’area dell’impugnatura della nostra arma da caccia. L’ideale sarebbe disporre di una striscia di pelle da avvolgere e fissare strettamente a formare l’impugnatura, ma anche della corda, del nastro adesivo, della stoffa o fibre vegetali andranno bene.

Per impermeabilizzare e rendere le fibre più compatte, disporre di grasso animale sarebbe un’ottima cosa, per cui, alla prima cattura, fondere il grasso e spalmarlo sull’arco lo renderà sicuramente un po’ puzzolente ma più efficace e duraturo. In alternativa, il grasso da scarponi non è male, così come la cera, ma non raccontatelo poi agli amici, una volta tornati alla civiltà, si rotolerebbero dal ridere e vi prenderebbero per i fondelli per tutta la vita: è veramente fantozziano trovarsi persi nel bush senza un fucile ma con grasso da scarponi o cera da pavimenti a disposizione.

Ora che abbiamo il nostro arco necessitiamo della corda. Ovviamente la cosa più semplice sarà quella di utilizzare qualcosa che abbiamo con noi: uno spago resistente, il laccio in nylon di uno zaino, un lacciolo di cuoio, tuttavia vi sono altre soluzioni e, a questo proposito, faccio una divagazione.

Quando ero ragazzino, ebbi la fortuna, per una serie di circostanze che sarebbe troppo lungo spiegare, di vivere in montagna, nella villa della nonna.

Nonna Adele era una donna meravigliosa. Era il prototipo della nonna che ogni ragazzino sogna di avere, tipo Nonna Papera, molto simile a certe antiche pioniere, ed era benvoluta e conosciuta da tutti. Durante la guerra aveva aiutato tutti in paese, ma era famosa anche per aver fatto filare, con la coda tra le gambe, un gruppo di razziatori, accogliendoli con la doppietta del nonno e convincendoli, garbatamente, che non era proprio il caso di cercare di entrare, e questa era una storia che avevo sentito raccontare infinite volte: una donna, insomma, dolce ma piuttosto decisa. Una volta assolta la gravosa incombenza dei compiti scolastici, ero libero di scorazzare per i boschi, spesso con “il berru”, il guardiacaccia, così soprannominato perchè aveva la testa ricoperta da una folta capigliatura, bianca e riccia come il vello di un montone. A quei tempi si faceva la caccia ai nocivi ed io avevo modo di tenere in casa animali come faine, un gufo reale, cornacchie, gazze che ripetevano il mio nome. In particolare ricordo Rikki-Tikki-Tavi, una faina presa da cucciola, che si era affezionata a me come un cagnolino e che mi seguiva dappertutto, ma che mordeva tutti gli altri come un’assatanata....

Ma mi sto facendo prendere dai ricordi e dalla nostalgia, meglio tornare all’argomento.

Mi costruivo degli archi rustici, con i bastoni stagionati usati per farci arrampicare le piante dei  fagiolini, ed usavo le stecche degli ombrelli come frecce, sfruttando le penne delle galline della Cilia, la giardiniera, come impennaggi, e detti archi funzionavano piuttosto bene. Ma il migliore arco che ebbi, lo costruii quando “Curnét”, il falegname e padrone della segheria, mi regalò un bastone di carpino stagionato. L’arco era talmente elastico e potente che facevo fatica a tenderlo ed avevo dovuto usare del fil di ferro come corda, perchè tutto ciò che avevo utilizzato si rompeva. Ecco, tornando al nostro nuovo arco d’emergenza, anche il  filo metallico, se non troppo spesso, va bene .

Le altre soluzioni, come tendini di animali, crine, budella richiedono lavorazioni più complesse.

La costruzione di una freccia spesso é, per quanto possa parere strano, più problematica di quella dell’arco. Tralasciamo, ovviamente, l’ipotesi di costruire una freccia come Dio comanda...troppo dannatamente complicato: la soluzione consiste nel fare come il più primitivo degli ominidi e cioè reperire, nell’ambiente intorno a noi, qualcosa di quasi pronto all’uso o che almeno non richieda lavorazioni che non siamo in grado di intraprendere. La prima cosa che ci chiederemo è se, tra la mercanzia che abbiamo a disposizione, vi sia, per un fortunato caso, qualche cosa di adatto: magari l’inutile carcassa del nostro fuoristrada messo fuori uso da un elefante arrabbiato o semplicemente rimasto senza benzina, o il relitto dell’aereo dopo un atterraggio di emergenza ( tocca ferro) possono regalarci qualcosa....un pezzo di antenna, un tubetto di alluminio e via dicendo. Se così non è, bisogna guardarsi attorno alla ricerca della soluzione. Alcuni vegetali possono fornire discrete frecce senza grosse lavorazioni:certi tipi di canna palustre, gli steli di certe piante erbacee alte un paio di metri e dal fusto legnoso, il sambuco, il viburno, il bambù....

Il passo successivo è ricavare la cocca, l’intaccatura che alloggerà la corda. Intagliata la sede, dell’ampiezza adatta, sarà meglio rinforzarla con una legatura, ad evitare che la spinta violenta della corda la apra in due.

L’impennaggio, infine, serve a stabilizzare la freccia. Il materiale migliore sono senz’altro le remiganti di qualche uccello. Si staccherà dal calamo la metà destra o sinistra delle barbe della penna, poi si elimineranno alcune barbe anche dalla parte rimasta integra, in modo da lasciare, alle due estremità, un tratto del calamo nudo, che servirà a legarlo alla freccia. Ci vogliono tre alette direzionali, disposte a 120 gradi tra loro, per dare stabilità nel volo.

La punta o lama sarà l’ultima operazione per disporre di un proiettile decentemente efficace.

La via più semplice è utilizzare l’estremità stessa della freccia, appuntita ed eventualmente indurita con il fuoco, tuttavia questa è sicuramente la forma meno efficace per fermare un animale, a meno che non sia molto piccolo o che venga spalmata con sostanze atte a paralizzare o uccidere la preda. Un pezzo di lamiera o di volgarissima latta, tagliato ed arrotolato a formare uno “scartoccio”, come quelli che facevamo da bambini per la cerbottana, fornisce una buona punta di freccia: potremo ricavarlo anche da una scatoletta di cibo, da un lamierino di rame, da un pezzo di rottame, da una vecchia tettoia.....mettiamoci un po’ di fantasia.

Disponendo di un minimo di attrezzatura o di un robusto coltello multiuso ( io non mi separo mai dal mio Leatherman), con lima e seghetto, potremo fare di più: tagliare un pezzo di lamiera più spesso e sagomarlo e affilarlo  a punta di freccia, con tanto di codolo per incastrarlo nell’asta.

Altre soluzioni sono gli aculei di istrice ( adatti a prede di piccole dimensioni), ossidiana o pietre taglienti, schegge d’osso e via dicendo.

 

 

L’ASCIA

 

L’ascia nacque contemporaneamente come attrezzo da lavoro e come arma e fu la naturale evoluzione del bastone o della clava dei Flinstone.

La  “lama” delle asce del Neolitico veniva solitamente ottenuta da basalti o altri minerali, come la nefrite e a volte la giada. La selce e l’ossidiana erano usate probabilmente come ripiego data la difficoltà ( provare per credere) ad ottenere pezzi abbastanza grandi e pesanti. Inoltre l’ossidiana era troppo fragile per usarla per colpire oggetti duri e resistenti.

Il manico era in legno duro, con un buco ad un’estremità, in cui alloggiare la testa dell’ascia: i colpi tendevano ad incastrarla sempre di più nel manico.

Anche quest’arma subì un’evoluzione e fu adattata ad usi diversi, ma, a caccia, venne più impiegata come attrezzo ...post cattura, che come arma o, al più, per il coup de grace. Al contrario, nelle guerre, ebbe un diffuso impiego e vi furono esempi anche di asce da lancio, come il mitico tommahawk dei pellerossa nordamericani.

Quando ero uno studentello universitario, ero solito andare a caccia in una sperduta e splendida zona del Sud della Iugoslavia, un paese di foreste abitate da lupi, orsi e cervi, con montagne calcaree ricche di camosci, dove la vita pareva essersi fermata al medioevo. Là conobbi pastori che mai avevano visto un’automobile (i carri tirati dai buoi erano il mezzo più diffuso).... ne’ tantomeno un binocolo. Ricordo il salto indietro che fece uno di quei pastori quando lo feci guardare in uno di quegli infernali aggeggi con le lenti .

Ma soprattutto ricordo una ragazza.

Una ragazza con cui ebbi un tormentato e tumultuoso....fidanzamento a singhiozzo, che si interrompeva quando me ne andavo e riprendeva quando ritornavo, come se nulla fosse successo, come gli uccelli migratori.

Valmjra era la figlia del guardiacaccia., una brunetta dai tratti orientali, molto bella, con quel suo visino da gitana e quella grazia da faina, ma pazzerella e selvatica come una lince, e conosceva la foresta come poteva conoscerla un folletto delle favole.

Lei, romantica,  mi regalò una scure.

Si trattava di una scure dalla forma curiosa: un manico lungo una sessantina di centimetri recava, all’estremità, una lama esattamente fatta ad L rovesciata, con la “gamba” più corta fissata all’anello che si inseriva sul legno e la “gamba” più lunga, con il dorso affilato, rivolto in basso, che fungeva da lama.

L’avevo vista fare delle cose incredibili con quell’aggeggio. L’avevo vista lanciare la sua ascia contro ceppi e tronchi e ne ero rimasto affascinato. Pareva di vedere uno di quei film sulle amazzoni...lei, minuta, bruna e snella, che lanciava quella lama con una precisione sconcertante, colpendo invariabilmente quello cui aveva mirato.....Tump.....tump.....tump: ad ogni tump la lama si conficcava profondamente, con lo spigolo formato dall’unione delle due gambe della L, nel bersaglio. Portai quell’attrezzo nella mia baita di caccia, al Rocciamelone, e ricordo che, con un pò di allenamento, riuscivo a colpire, senza troppe difficoltà, un foglio di carta fissato su una massiccia porta di legno di un rudere lì vicino, otto volte su dieci, da una distanza di sei o sette metri. Mio figlio ricorda ancora quei pomeriggi al Nicoletto, e quell’ascia che lo incantava con il suo lucente roteare, ed ogni tanto me ne parla ancor oggi.  Era stupefacente la facilità con cui, quel lungo manico consentiva tiri precisi, e soprattutto come la lama andasse sempre a colpire di spigolo, dopo un’elegante giravolta. Pensate solo con che potenza tale arma arrivava a conficcarsi nel bersaglio. Poi, un giorno, qualcuno forzò la porta della mia baita e si portò via quella scure...ed un pezzetto della mia storia, e tanti ricordi.

Un’ascia abbastanza rustica e primitiva è quella che ho visto in un’infinità di villaggi e di cacce africane, in mano ai tracciatori, ai contadini, a donne che fanno legna. Un bastone di legno durissimo, che può essere, a seconda dei paesi, ironwood, leadwood, lebombo, yellowwood, ebano ecc. ecc., viene scelto e tagliato in maniera che, ad una delle estremità, ci sia un nodo particolarmente compatto. Nel nodo viene praticato un foro conico ed in esso incastrata la lama, che è un semplice triangolo di ferro, con la base affilata e l’apice che entra nel foro stesso. Ad ogni colpo, la lama si incastra più saldamente nel manico. Questo tipo di scure è sorprendentemente uguale in tutti i paesi africani, come dicevo cambia solo il legno.

 

MAZZE

 

Farò un accenno brevissimo a quest’arma, perchè non riveste interesse venatorio ma è essenzialmente arma da offesa e difesa. Tuttavia, poiché in Africa si trovano spesso, in mano a guerrieri di varie tribù, mazze molto belle , che sono oggetti da collezione non disprezzabili e molto caratteristici, almeno menzionarle non guasta.

 

 

LA CERBOTTANA

 

La cerbottana o, come la chiamano gli anglosassoni molto appropriatamente, blowgun, cioè “fucile da soffio” non è assolutamente un’arma utilizzata dalle popolazioni africane, mentre è largamente impiegata in America meridionale. Premetto che non ho alcuna esperienza delle popolazioni di quella parte del mondo, ma ho parlato con persone che hanno bazzicato le foreste del Mato grosso e dell’Amazzonia, e mi è stato spiegato che le lunghe cerbottane degli indios  vengono ottenute da canne particolarmente diritte e regolari. La canna, ovviamente, va svuotata, regolarizzata e levigata al suo interno, in quanto non è completamente cava come una canna di fucile, ma irregolare ed interrotta da setti e sepimenti. Il cacciatore seziona quindi per il lungo il fusto e poi provvede alla lavorazione dell’anima, eliminando i sepimenti che dividono l’interno in camere separate, levigando e lucidando le pareti, fino a dare alla parte interna un diametro costante. Infine le due metà vengono assemblate e strettamente unite fasciando il tutto con fibre vegetali.

I dardi sono ottenuti da vari materiali, spesso spine lunghe e leggere, che recano, all’estremità posteriore, una sorta di batuffolo di fibre sottili, simili a cotone, che ha la doppia funzione di fungere da tampone o da stantuffo per la propulsione del dardo e di stabilizzare il medesimo quando è in volo. Mi è stato riferito che i cacciatori della “selva” sono in grado di colpire, con le loro lunghe cerbottane, una preda fino ad una trentina di metri, e non ho motivo di dubitarne visti i risultati che si possono ottenere con cerbottane ben più corte delle loro.

Le punte sono trattate con curaro, una sostanza di origine vegetale che blocca la trasmissione neuro-muscolare e che paralizza la preda, oppure con la secrezione cutanea delle rane tintorie,

che contiene la batracotossina, perchè il dardo, da solo, non sarebbe in grado di uccidere animali della taglia di una scimmia o di un uccello medio-grande.

 

 

COSTRUIRSI UNA CERBOTTANA

 

Esistono in commercio cerbottane pronte all’uso ed ho visto persino la pubblicità di una cerbottana con tanto di puntatore laser. Tuttavia costruirsi il proprio “fucile da soffio” è semplicissimo e da maggior soddisfazione. Io uso spesso, in Africa, la cerbottana, semplicemente per fare del tiro a segno, ma anche per la piccola caccia, ed è una pratica estremamente interessante e che può dare grandi soddisfazioni.

In qualsiasi negozio di ferramenta si trovano tubi di alluminio o di rame, perfettamente dritti e di un calibro tra 1 cm. e 12 millimetri. Se vi procurate, prima dell’acquisto, un dardo precostruito, di quelli che si acquistano agevolmente da un armiere o su internet, potrete scegliere un tubo dell’esatto diametro e questo presenta degli indubbi vantaggi, anche se poi vorrete fabbricarvi da voi i vostri dardi e sbizzarrirvi nella sperimentazione, in quanto avrete anche la possibilità di utilizzare proiettili già in commercio. Questi dardi sono costituiti da un cono in plastica su cui si innesta un pezzo di filo armonico di acciaio, perfettamente diritto, lungo da dieci a quindici centimetri.

Potete assemblare cerbottane di varie lunghezze, da 100 cm. circa a 220 cm ed oltre, ma, per esperienza diretta, trovo che la lunghezza ideale, cioè il miglior compromesso, è tra i 120 ed 150 cm.. Una canna più lunga ha il vantaggio di una maggior velocità del proietto e di una traiettoria un po’ più tesa, per contro presenta lo svantaggio di un maggior ingombro, specie a caccia, e di richiedere una maggior quantità di aria immessa bruscamente dai vostri polmoni nell’imboccatura del tubo, il che si traduce, sovente, in un più accentuato movimento del vostro torace e, di conseguenza, minor precisione....insomma, un po’ come “strappare” con una carabina. Vero è che, se ci si allena, anche questo inconveniente viene superato. Quando costruisco una cerbottana lunga, unisco due tubi, adagiandoli su di un profilato in alluminio con sezione ad angolo, oppure con sezione che assomiglia ad un quadrato cui manchi un lato, insomma, non so come si dica in ....carpentierano, ma con una sezione a C squadrata.

I due tubi, collegati con un anello di nastro adesivo, poggiano esattamente sul profilato, cui vengono uniti sempre con nastro adesivo, e questo ha una duplice funzione: da un lato rende solidali le due metà, dall’altro irrigidisce tutta la struttura, di modo che il lungo tubo non fletta e sia sempre diritto e regolare. Si può anche rendere la cerbottana lunga smontabile e facilmente trasportabile, sostituendo il nastro adesivo con elastici o camera d’aria ed utilizzando un profilato non lungo come tutta la cerbottana ma come ognuno dei due tubi che la compongono. In tal caso, il profilato, simile all’astina di un fucile, sarà presente solo su metà dell’arma, ma svolgerà comunque egregiamente il suo compito di irrigidimento dell’insieme: una volta smontata la cerbottana, avremo tre pezzi della stessa lunghezza .

Un accessorio utile ma non indispensabile è l’imboccatura, che può essere ricavata da vari materiali, una sorta di imbuto su cui poggiare le labbra all’atto dello....sparo: un po’ di inventiva ed il gioco è fatto, ci sono mille aggeggi che possono essere adattati allo scopo, oppure lo si può fare con materiali tipo il silicone o materiali da impronta per odontoiatria . Una buona imboccatura può essere ricavata anche da un imbuto tagliato o da un cappuccio di siringa, entrambi riempiti con silicone .

Ed infine i dardi. I dardi del commercio sono ottimi, ma più adatti al tiro a segno che alla caccia anche se, a onor del vero, si possono uccidere agevolmente piccoli uccelli, lucertole, piccoli roditori....quando si ha fame tutto va bene per la padella.

Se provate a colpire, con una cerbottana costruita come sopra ed un dardo del commercio, una porta o un asse di legno massiccio, a 20 metri di distanza, constaterete che per estrarre la freccia dovrete far uso di un buon paio di pinze: la penetrazione è a dir poco impressionante, e vi sentirete come Superman o come il lupo che abbatte a soffi la casetta dei tre porcellini.....”Cavolo, che putenza”.

A parte gli scherzi, rimarrete veramente stupiti della forza di penetrazione di un dardo spinto da un semplice soffio, e lo potrete sperimentare passando come burro un coperchio di lamiera .

Dardi più idonei alla caccia possono essere costruiti con vari sistemi. Il più semplice è sicuramente quello di modificare uno di quelli che si acquistano comunemente. Quello che ci serve è, ovviamente, la lama da caccia. Ho provato vari metodi, ma chissà quanti altri ce ne sono. Delle discrete lame si possono ricavare da lamette da barba tagliate a triangolo, della larghezza giusta per scorrere senza intoppi nell’anima della cerbottana, e poi applicate all’estremità del filo d’acciaio armonico, o con un punto di saldatura o tramite incollaggio con una di quelle colle pazzesche che si trovano in qualsiasi negozio di ferramenta. Questo secondo metodo è più semplice e non richiede un aggeggio per saldare, tuttavia è facile che la lama si stacchi quando il dardo fallisce il bersaglio o se si infigge in una superficie dura, però per la caccia vanno bene lo stesso. Proiettili ancora migliori, anzi, spettacolari, si ottengono saldando una lama di bisturi, o di coltellino da modellismo, correttamente dimensionata, su un dardo in filo armonico del commercio.

Un’altra via, che da grandi soddisfazioni, è quella di autocostruirsi anche i dardi. Ho fatto un sacco di tentativi, alcuni con successo, moltissimi con risultati deludenti, ma anche questo fa parte del gioco. Poiché anche questo “giocattolo” chiamato cerbottana potrebbe avere una sua funzione in caso ci si trovi nella necessità di fare del “survival” non per hobby ma per sopravvivere, avere qualche idea su come farsi i dardi non guasta. In fin dei conti non è così improbabile trovare tra rottami vari un pezzo di tubo metallico, di plastica, di cartone o di altri materiali e, si sa, il bisogno aguzza l’ingegno. Al peggio si potrà tentare la via degli indios e sezionare e alesare una canna palustre o di bambu, ma anche della carta o del cartone, arrotolato e indurito con colla può servire allo scopo.

Una bacchetta di legno di piccolo diametro, una lunga spina, un aculeo di istrice possono fornire dardi mediocri, ma comunque utilizzabili a breve distanza, magari da un nascondiglio, oppure camuffati sotto un cumulo di rami o frasche. Un batuffolo di cotone arrotolato a formare un fuso ed impermeabilizzato con colla o con resine vegetali e poi lasciato asciugare, può fungere da impennaggio e da...borra. Si può usare del filo di ferro o meglio di acciaio armonico, se ce n’è a disposizione, e provare con i più disparati materiali.

Un dardo ideale lo si costruisce con una bacchetta lunga da 30 a 40 cm e del diametro di 2,5 o 3 mm. di materiale leggero e resistente, tipo fibra di vetro, oppure di legno, alla cui estremità si pratica, con un seghetto, una intaccatura profonda qualche millimetro. In essa può essere incastrata la punta da caccia, che si può agevolmente ricavare da una di quelle lame intercambiabili che si innestano su coltellini e taglierine da modellismo. Spesso dette lame sono fatte a triangolo rettangolo, ma possono essere modificate, con una tronchesina, fino a dar loro forma più regolare.

Anche una lametta da barba, ritagliata in forma idonea, o una lama da bisturi monouso faranno al caso nostro. La lama viene incastrata nella tacca e fissata con colla epossidica, o con una legatura, e risulterà piuttosto efficace. Per quanto riguarda il cono di forzamento, ho constatato che a volte tornare bambini è un passo avanti anziché indietro. Fate un normalissimo “scartoccio” di carta, si, proprio di quelli che facevate da gagni per la cerbottana, e poi fissatene la parte posteriore con dello scotch per tenerlo in forma. Fatto? Adesso prendete la vostra cerbottana e, se volete essere pignoli, potete anche passare un pennarello o carbone o qualsiasi cosa che sporchi, sul bordo, poi infilate lo scartoccio nella medesima, lo estraete e vedrete dove è rimasto il segno circolare che indica il diametro della vostra bocca da fuoco. In quel punto esatto il cono di carta andrà tagliato. Adesso però dobbiamo irrigidirlo, perchè così non è certo idoneo a portare lo stelo del dardo.

Un metodo semplice è colare dentro il cono della cera di candela, ma ne risulterà un insieme fragile, che non potrà, probabilmente, essere utilizzato molte volte. Un metodo molto più valido è spalmare il cono con colla epossidica o con banale vinavil, il che, tra l’altro, lo renderà anche impermeabile. Una volta asciugata la colla, si pratica con attenzione un foro all’apice e vi si inserisce l’asta del dardo, che viene poi, a sua volta, incollata. Questo tipo di dardo funziona molto bene, ma fate delle prove, vi divertirete e acquisterete esperienza.

Come si mira con una cerbottana? Quando avrete fatto un po’ di pratica, vi renderete conto che la precisione può essere stupefacente. Vi sono vari metodi, ma io uso solitamente il seguente.

Mettetevi di fronte al bersaglio (ad esempio un foglio di carta protocollo, con un segno in centro), a 10 metri, ed imbracciate...pardon, imboccate la vostra arma. Vedrete davanti a voi il bersaglio e l’estremità della canna. Ora, chiudete alternativamente l’occhio destro ed il sinistro guardando sia il bersaglio che la punta della canna e vedrete che la volata della vostra arma si sposterà (apparentemente) a destra, quando aprite l’occhio sinistro ed a sinistra quando aprite quello destro. Ora, sempre aprendo e chiudendo alternativamente gli occhi con una certa velocità, spostate la volata in modo che l’estremità della cerbottana si sposti esattamente  e simmetricamente ai due lati del bersaglio: ecco, ora avete la direzione precisa . Non resta che regolare...l’alzo. Normalmente, con una cerbottana di media lunghezza e dardi del commercio, a dieci metri mi tengo più o meno alla stessa altezza della base del centro, sempre saltellando con gli occhi in modo da essere perfettamente centrato, per abbassare il punto di mira se il bersaglio è più vicino (mirare sotto) ed alzare se più lontano. Tentando un po’ di volte otterrete una precisione che sbalordirà chi non ha mai provato. Spesso si ottengono rosate da....bench rest .

Per inciso, la cerbottana si può usare con successo anche per pescare piccoli pesci( fino ai 300 grammi). Una sottile lenza da pesca, lunga 4 o 5 metri,  può essere collegata al dardo e l’estremità opposta trattenuta dal cacciatore. In questo caso la cerbottana sarà ...ad avancarica ed il dardo andrà introdotto dalla volata..

 

LA FIONDA

 

Tutti noi da ragazzi l’abbiamo usata e quindi non spendiamoci più di tante parole. Anche questa arma, tuttavia, può procacciare il cibo, e certe fionde moderne possono lanciare biglie di acciaio con energie decisamente elevate. Tutti i  neri in Africa le costruiscono e le usano e ricordo una notte divertentissima, in Africa equatoriale, letteralmente assediati dalle iene affamate, che sentivano l’odore del cibo e che giravano a distanza di....sputo. Quella notte si mangiarono persino il pomolo del cambio del Toyota, ed i neri si davano il cambio a tenerle lontane ( quando non bastava entrava in azione il...grande banduku) a colpi di fionda. Di tanto in tanto, tra i cori di latrati, ululati e sghignazzi mostruosi, si che sembrava di essere in un girone di dannati, si alzavano...”pianti ed alti guai” quando una di loro si beccava un ciottolo nelle parti basse o sul naso o in un occhio.

Si, fu una notte di tregenda, ma quanto ridere facemmo mia moglie ed io.

 

VELENI ANIMALI

 

I veleni di origine animale non sono molto utilizzati in Africa per le frecce da caccia. A parte l’uso di veleni di serpente, molto sporadico, la principale eccezione riguarda i Boscimani del Kalahari. Pur utilizzando anche tossine vegetali e, a volte, veleno di serpente ( cobra del capo o naja nivea), questi piccoli cacciatori sono specializzati nella preparazione di un veleno tratto dalle larve una famiglia di insetti detti anche cantaridi, che i San chiamano Ngwa o Ka. La specie più usata è Diamphidia nigro-ornata, dalle cui pupe viene ricavato il veleno (Diamphotossina). Questi insetti che, una volta insetti perfetti, presentano colorazioni vivaci, vivono spesso sulle piante di Commyphora, ed il bozzolo da cui esce la larva utilizzata dai Boscimani, è seppellito nel terreno, anche ad 1 metro di profondità, presso la pianta. I bozzoli sono una forma di resistenza al clima inclemente e le larve possono rimanere vitali, nel bozzolo sepolto, per anni, prima di divenire pupe. Dalla larva, schiacciata, si ricava la tossina ed occorrono in media da 5 a 10 larve per una punta di freccia. La durata di tale veleno non è eterna e perde di efficacia con l’andare del tempo, per esaurirsi dopo un anno circa.

Un altro sistema di preparazione consiste nell’essicare le larve e poi polverizzarle: la polvere viene fissata sulla lama con estratti vegetali collosi.

Un San mi mostrò l’ingegnoso trucco per evitare il rischio, tutt’altro che trascurabile, di ferirsi e ..defungere al posto della preda, ferendosi o graffiandosi accidentalmente: i piccoli uomini gialli del deserto non sono stupidi e quindi spalmano il veleno non sulla punta e sul filo della lama, ma solo sulle parti ruvide e piane dietro alla punta, cosicché la punta della freccia deve penetrare completamente per ceder la tossina, che agisce sul cuore e che impiega, solitamente, alcune ore ad uccidere la preda, o giorni, se si tratta di una grossa antilope, come un gemsbok.

Vi sono altri insetti utilizzati per ricavarne veleni da freccia, come la Diamphidia vittatipennis, e le crisomelidi e la Lobistina, che è, in effetti, un parassita delle Diamfidie.

 

 

 

LE TRAPPOLE ED ALTRI SISTEMI DI CACCIA

 

L’arte di porre trappole è vecchia come l’uomo e rappresenta, in ultima analisi, un mezzo, insidioso ed ingegnoso, di catturare una preda che diversamente sarebbe irraggiungibile o impossibile da...sottomettere. Anche nel mondo animale vengono utilizzati sistemi di caccia e trucchi vari, a volte estremamente raffinati. Molti animali usano esche per attirare la preda a distanza utile. Certi serpenti, come la death adder australiana, usano la coda, che termina con un’estremità colorata, per far avvicinare il potenziale spuntino, muovendola sapientemente, in maniera da imitare le contorsioni di un succulento lombrico. Le rane pescatrici, pesci predatori di fondo, usano appendici a forma di ..canna da pesca per attrarre a portata della loro enorme boccaccia un ignaro pesciolino e molti pesci abissali addirittura dispongono di esche luminose.

Gimnoti e torpedini, anziché usare, come abbiamo visto, il lattice dell’euforbia o del tamboti come fanno i neri, sono andati un po’ più in la e pescano con la corrente elettrica, tramortendo le prede per poi papparsele.

Le larve dell’usekamanzi, il formicaleone africano, un insetto che, da insetto perfetto, assomiglia ad una libellula, sono accanite cacciatrici di formiche e le insidiano con trabocchetti conici che ricordano certe trappole da elefante che ho visto in Africa equatoriale e di cui parlerò in seguito. La larva, che ha l’aspetto mostruoso di un orco delle favole, con le sue smisurate mandibole, se ne sta sepolta, come Dracula nella sua tomba, al fondo di un cono scavato nella sabbia . Quando una formichina scalognata passa sul bordo del suo imbuto, il bandito da inizio ad una sassaiola stile lapidazione, sparando granelli di sabbia contro l’insetto fino a farlo precipitare nel cono. A questo punto, un po’ per le pareti franose di sabbia, un po’ per il continuo bombardamento, la formica non ce la fa a risalire e scivola inesorabilmente al fondo dell’imbuto, nella tana dell’orco, che prontamente l’afferra e se la succhia letteralmente, ingollando ingordamente i fluidi interni, per poi buttar via la buccia, che viene sparata fuori dal cono come una lattina vuota di Coca-cola..

Ci sono poi pesci arcieri, che colpiscono con un preciso sputo d’acqua un insetto che se ne sta su di un filo d’erba che sporga sull’acqua, coleotteri bombardieri che ricorrono alla guerra chimica, sparando, poco elegantemente, dal...posteriore, sostanze che stordiscono, ed un’infinità di altri trucchi, da fare invidia al più incallito e smaliziato bracconiere .

Sicuramente l’uomo, dotato di spirito di adattamento e di iniziativa, avrà preso spunto anche da questi trucchi del regno animale per sviluppare, nel corso dei millenni, tecniche di caccia sempre più ingegnose ed in Africa, in particolare, l’attività del trapper o, per dirla come gli Zulu, ukucupha è assurta a vera e propria arte, anche per il fatto che in questo continente animali poderosi e a volte pericolosi abbondano.

 

I LACCI

Il laccio è uno dei più semplici tipi di trappola che l’uomo, da millenni, utilizza, e può essere di tue tipi; fisso e mobile.

Il laccio fisso è un laccio impostato lungo un sentiero od un passaggio obbligato, in maniera che l’animale ci si infili da solo e lo faccia serrare con il suo stesso movimento . Più la preda si spaventa e cerca di fuggire, più il laccio, impietosamente, si stringe, a volte fino a strangolarla o comunque immobilizzandola e stremandola. I lacci fissi sono anche quelli che vengono impiegati dai bracconieri per gli animali più grandi e pesanti, in quanto uno snare in cavo d’acciaio è a volte in grado di bloccare un rinoceronte od un bufalo.

Anni fa fui invitato a cacciare un problem buffalo, sul fiume Timbavati, che caricava turisti e passanti a vista . Quando lo abbattei, dopo una caccia oltremodo movimentata, riscontrai che una delle zampe posteriori recava una cicatrice circolare, spessa e sclerotizzata, come un vero e proprio cheloide, e addirittura la zampa, al di sotto, e lo zoccolo, erano ipotrofici. Il bufalo era evidentemente incappato, tempo prima, in un laccio metallico, da cui era riuscito ad evadere, ma che gli era quasi costato una zampa. A seguito di ciò gli era residuato un pessimo carattere (che non mi sentivo di condannare). Nelle grandi piane erbose, viene utilizzata una tecnica diversa. Vengono tesi centinaia di metri di fili metallici  o corde,  tesi tra paletti o piante, a circa 1 metro da terra. Sospesi alle corde, vi sono centinaia di lacci, che si toccano quasi. Gruppi di battitori spingono gli animali, terrorizzandoli con urla e fracasso, ottenuto tramite percussione di latte e tamburi, in direzione dei lacci. Antilopi, facoceri, zebre, incappano a decine nei cappi e vengono poi finiti con lance o mazze.

Il laccio mobile è invece un laccio che viene teso bruscamente e serrato sulla preda da un “motore” esterno, che può essere un albero flessibile piegato o un contrappeso che viene fatto precipitare. Difficilmente tale tipologia di trappola può essere adatta ad animali grossi e pesanti.

Poiché comunque, in Africa, la maggior parte delle prede insidiate servono a fornire nyama, bistecche, la maggior parte dei lacci è dimensionata per animali della taglia di un’antilope e spesso anche di un coniglio o di un irace. Questo fa si che il saccheggio sistematico dei cavi elettrici e telefonici sia quasi, in certe zone, uno sport nazionale, poiché il rame si presta molto bene sia a...ukucupha che a fare braccialetti, talvolta veramente molto artistici.

 

CACCE CON RECINTI , PALIZZATE E RETI

L’idea di spaventare la selvaggina e spingerla verso una trappola è vecchia come l’uomo-cacciatore. Pare che già nel periodo delle glaciazioni, mammouth e rinoceronti lanuti venissero spinti verso dirupi o verso trappole naturali, come gli stagni di bitume che hanno permesso, tra l’altro, la conservazione di esemplari di animali di grandi dimensioni fino ai giorni nostri.

In Africa alcune popolazioni di aree aperte, dove i passaggi obbligati, tipici del bush fitto e delle zone rocciose, così idonei a impostare lacci, sono assenti, costruiscono palizzate o zeribe di tronchi e rami spinosi, lunghe a volte chilometri, in cui vengono aperti dei varchi. I selvatici, vuoi spinti da battitori, vuoi semplicemente di passaggio, sono costretti a passare attraverso tali aperture in cui i lacci sono in attesa. Una variante prevede cacciatori in agguato, armati di arco e frecce avvelenate.

Anche gli specialisti che si dedicano alla cattura ed  al trasferimento della grande selvaggina utilizzano il sistema delle palizzate o degli sbarramenti di reti, e  Jerry, fratello del mio amico e socio Sandy, è uno specialista di tale pratica.

 

TAGLIOLE

 

Accennerò solo a questi arnesi da bracconiere, perchè tutti li conoscono. Ho rinvenuto, nel bush, tagliole vecchie di un paio di secoli,  di cui ho alcuni esemplari a Ingwe . Mia figlia Carlotta ne rinvenne una particolarmente antica in un remoto canalone della nostra riserva, ai piedi di una parete rocciosa, habitat di conigli delle rocce ed iraci; evidentemente era appartenuta a qualche Boero, che si avventurava a caccia tra le montagne nei periodi di siccità, quando la pianura era terra bruciata dal sole e le pozze inaridivano.

 

LA STIACCIA o UMWOWANE

 

Si tratta di un tipo di trappola semplice e di facile costruzione, adatta, per lo più, ad animali di mole modesta ( uccelli, roditori, conigli, lepri ecc.), ma in qualche caso usata anche per grossi animali. I popoli N’guni le usano estensivamente e le chiamano imiwowane.

Una grossa pietra piatta oppure un graticcio di pesanti rami, spesso armato, sulla parte inferiore, di punte acuminate o lunghe spine, vengono posti, inclinati, in modo che una parte poggi sul terreno e l’altra sia appoggiata, in precario equilibrio, su di un supporto.

Il supporto è solitamente costituito da due paletti, appuntiti ad entrambe le estremità. Il primo è infisso nel terreno, verticalmente, e sulla sua punta viene posta un’assicella od un pezzo di legno.

Sopra questo, viene posto il secondo paletto, che è libero e che poggia, inferiormente, sull’assicella e sorregge, con l’estremità superiore, il peso della lastra di pietra. Ne risulta che il peso della massa poggia su un “pilastro” spezzato in due, con l’intermezzo di un “tassello” che tiene il tutto in equilibrio. L’esca, che deve attirare la preda sotto l’umwowane, può essere sistemata sull’assicella ( specialmente nelle trappole per uccelli ) oppure legata, tramite una corda, all’assicella stessa: il colpo di becco o lo strattone dato dall’animale al pezzo di cibo, provoca la rottura dell’equilibrio, con conseguente caduta del peso, che uccide, schiaccia o imprigiona la preda.

 

TRAPPOLE A CADUTA

 

Questo tipo di trappola è usato soprattutto per cacciare l’ippopotamo e l’elefante e ne ho viste diverse, sia nelle foreste dell’Africa centrale ( per l’elefante) che in altri paesi ( per l’ippopotamo).

In particolare, una mi venne mostrata da un tracciatore pigmeo, appena prima che ci passassi sotto: era sistemata lungo una traccia di pista tagliata nella foresta, e pendeva, è il caso di dirlo, come una spada di Damocle, ad un’altezza di una quindicina di metri, un’altezza in grado di imprimere al pesantissimo ceppo, in cui era infissa una punta di lancia, abbastanza energia da piantarsi a fondo nel corpo di un pachiderma....per un uomo la punta di lancia sarebbe stata superflua, bastava ampiamente il peso del tronco .

Dire che mi sentivo a disagio, in quella fetta di foresta pluviale, dopo aver visto un paio di archi impostati a scatto, con frecce avvelenate, e quella sorta di congegno anti-carro, è riduttivo. Il nero mi assicurò che quella trappola non era pericolosa per l’uomo, perchè ci voleva un grosso peso per farla scattare, ma, chissà perchè, le sue parole non ce la facevano a farmi sentire del tutto al sicuro. Una volta, sullo Zambesi, ero inciampato in una mina anti-carro seppellita nella sabbia, e mi venne spontaneo il paragone: una mina anti-uomo, appena la sfiori, ti sega le gambe, ma il peso di una persona  non basta ( almeno in teoria) a far scattare l’innesco di un ordigno studiato per un mezzo blindato....chissà se era vero lo stesso assioma per quella trappola? Comunque preferii giraci intorno.

Un ceppo, pesante, credo, tra i cinquanta ed i cento chili, era appeso sul passaggio. Una  punta di lancia, molto lunga (almeno 60 cm.) e larga, probabilmente fatta apposta per questo scopo, era piantata nella parte inferiore del legno, puntata verso il basso,  ed il ceppo era trattenuto da una robusta corda che scendeva obliquamente fin nel fitto, a lato del sentiero. Poi, la corda passava sotto un grosso ramo che fungeva da rinvio e si dirigeva verso la pista. Alla sua estremità, era legata saldamente ad uno spesso tronchetto, lungo mezzo metro e del diametro di circa 20 cm., che recava un’intaccatura.

Detta intaccatura si incastrava in un’altra, identica, di un uguale paletto, collegato ad un’altra corda, tesa attraverso il sentiero, a circa 20 cm dal suolo, mascherata con foglie, ma stranamente abbastanza visibile, e ancorata ad un tronco, dall’altra parte della pista. Il meccanismo era abbastanza semplice: l’elefante, inciampandovi dentro o toccando col piede la corda, avrebbe fatto sganciare le due tacche, liberando il tronco. Il pachiderma avrebbe potuto calpestare o urtare la fune, dato che non l’avrebbe ritenuta ostacolo solido, ma avrebbe anche potuto scavalcarla senza toccarla. Il colpo di genio stava nel fatto che la fune era collegata ad altre corde tese per un metro lungo il passaggio, come una rete a maglie larghe, per cui era improbabile che un elefante non ne toccasse almeno una: al limite, la lancia avrebbe colpito un po’ più indietro sul dorso, ma avrebbe inflitto comunque una ferita mortale, anche se non a breve termine, dopodiché, seguirlo ed aspettarne la fine non sarebbe stato un problema, specie per un buon tracciatore.

Questo tipo di trappola è usatissimo per gli ippopotami, animali molto abitudinari per quanto riguarda i passaggi, specie in prossimità dell’acqua. Il ceppo, armato di lancia, viene sospeso ad un ramo della foresta a galleria, sopra uno dei corridoi aperti nella vegetazione dagli ippopotami e spesso il grosso animale non riesce neppure ad arrivare all’acqua, dopo un simile trattamento, che spesso rompe la colonna vertebrale o causa comunque non solo una profonda ferita negli organi interni, ma lesioni dovute all’urto.

Già che abbiamo parlato di trappole per pachidermi, accennerò ad altri sistemi usati anche per l’elefante.

 

TRABOCCHETTI

 

Una volta, mentre seguivamo le tracce di alcuni bufali di foresta, mi imbattei in una carcassa di elefante. Del grande animale restavano solo le ossa e brandelli di pelle disseccata e mummificata e mi fermai ad osservare, notando come le zanne fossero scomparse, segno probabile che l’animale era stato cacciato e non era morto di morte naturale. Ciò che mi incuriosì fu il fatto che lo scheletro giaceva su una specie di trincea, lunga circa 4 metri, larga 1 metro e mezzo e profonda oltre un metro. Li per li pensai che tale solco fosse stato scavato, per qualche strano motivo, al fine di lavorare sotto la preda, ma il pigmeo Baka che fungeva da tracciatore mi spiegò l’arcano: si trattava di una trappola per elefanti.

Il tutto è di una semplicità disarmante, ma, allo stesso tempo, geniale. I cacciatori scavano questa sorta di fossato anticarro, fatto ad imbuto, o meglio, come una valle di sezione a V, lungo uno dei passaggi usuali utilizzati dai pachidermi. Il trabocchetto è poi mascherato da un graticcio di rami, coperti di foglie,  fronde e sterco di elefante, per coprire l’odore dell’uomo.

Quando il gigante incappa in una di tali trincee, il peso fa si che i piedi anteriori vadano ad incastrarsi sul fondo, che è della stessa larghezza della lunghezza approssimativa di una zampa elefantina. A pensarci pare strano, ma l’evidenza era lì, davanti ai miei occhi: con entrambe le zampe anteriori incastrate, un animale come l’elefante non ha la possibilità, come avrebbero altri selvatici, di liberarsi con uno scatto degli arti anteriori. Poi i cacciatori finiscono l’animale, spesso con l’uso di frecce avvelenate.

Per selvaggina di mole minore, fosse profonde da un metro e mezzo a due metri, sul cui fondo sono piantati pali acuminati, sono a volte utilizzati, ma in Africa si tratta di un sistema non così diffuso come pare sia in Asia.

Comunque, centinaia di trappole a trabocchetto vennero rinvenute dagli inglesi durante la rivolta dei Maumau, nelle foreste degli Aberdares e del Monte Kenia, e, in quelle zone, i Wandorobo le usavano anche per l’elefante.

Trappole a trabocchetto vengono, infine, utilizzate, anche in aree aperte di savana erbosa, in abbinamento col sistema delle palizzate, poste ad angolo, a 45 gradi, in modo da incanalare le prede verso l’insidia.

Il sistema delle palizzate era un lavoro ciclopico, tuttavia aveva una sua utilità perchè consentiva carnieri  abbondanti, che potevano nutrire intere tribù, e le palizzate venivano utilizzate ben più di una volta, come impianti semipermanenti, ma era usato più estensivamente un tempo, mentre al giorno d’oggi risulta pericoloso, data la facilità con cui viene individuato da un aereo o da un elicottero e le autorità, giustamente, non lo considerano certo un sistema....ecologicamente sostenibile.

 

TRAPPOLE A RUOTA

 

Una curiosa trappola, spesso usata per l’elefante, è quella a ruota dentata, che alcuni gruppi di pigmei ed i Turkana utilizzano ancora.

Abili artigiani costruiscono, con rami flessibili, una sorta di cerchio, cui sono fissati, a raggiera, dei bastoni appuntiti, con le punte rivolte verso il centro. Le punte vengono indurite col fuoco, in maniera da renderle resistenti e compatte e, a volte, cosparse di veleno ed il cerchio viene posto su di una buca scavata nel terreno, lungo un passaggio abituale. Il tutto è mascherato con foglie e sterco di animale. Spesso, parecchi di tali congegni vengono disseminati sullo stesso sentiero, al fine di incrementare le possibilità di successo. Quando il piede della preda sprofonda nella buca, infilandosi nel cerchio, le punte penetrano nella zampa. Generalmente la trappola è legata ad un pesante ceppo, tramite robuste corde o filo di ferro e l’animale è rallentato, nelle marcia, dal dolore e dal peso che, oltretutto, si impiglia per ogni dove nella vegetazione e contro gli ostacoli.

Un tipo analogo, ma più piccolo e leggero, viene usato, per cacciare le antilopi, da popolazioni di fede musulmana, che preferiscono prendere l’animale vivo e poi finirlo secondo le loro usanze.

 

CHIODI

 

Avevo accennato a questo sistema in un precedente articolo sull’elefante.

Alcune famiglie di pigmei utilizzano assicelle in cui sono infissi chiodi di sezione quadrata, lunghi anche 20 cm. e incisi con un seghetto o una lima, in modo da ritagliarvi dei “ riccioli” metallici che fungono da ardiglioni e che rendono difficile o impossibile liberarsene. Disseminate sulle piste degli elefanti, queste mine hanno degli effetti funesti: il povero bestione, una volta che ha messo il piede su una di queste, è costretto a camminare soffrendo dolori atroci. Inoltre spesso i chiodi sono cosparsi di escrementi, in modo da facilitare l’infezione o addirittura di veleno.

Una variante che trovai in foresta, ben più sofisticata,  era stata forgiata da un buon fabbro, ed assomigliava, in grande, ai chiodi a 4 punte utilizzati per fermare le auto, solo che quelli che rinvenni, sapientemente disseminati lungo un sentiero, erano lunghi 15 cm. e portavano, alle estremità delle punte, uncini simili a quelli di un grosso amo da pesca, per assicurarne la permanenza nel cuscinetto plantare...credo che il povero Jumbo non avrebbe neppure più potuto appoggiare la zampa in terra, con uno quegli ordigni infernali conficcato dentro .

 

CAVALLI DI TROIA

 

Il buon Ulisse mai avrebbe immaginato che gli abitanti della lontana Africa gli avrebbero rubato l’idea. Beh, in effetti, i cavalli di Troia di cui parlo sono leggermente diversi, tuttavia rivelano che la subdola astuzia ha sempre fatto parte del corredo culturale dell’uomo in qualsiasi epoca ed in qualunque paese.

Asini coperti con pelli di zebra o antilope, dietro cui, quatto quatto, il cacciatore si porta a tiro di freccia della preda, sono di uso abbastanza comune, ed i Boscimani si confezionano intelaiature di rami ricoperte di piume di struzzo, foggiate in modo da riprodurre il lungo collo e la testa del veloce uccello corridore. Con tale stratagemma, sono in grado di avvicinare sufficientemente i diffidenti pennuti da poterli colpire con una freccia avvelenata .

 

CACCE CON IL FUOCO

 

In alcune regioni, come il Sudan meridionale, certe zone del Centro Africa ed aree di savana del Congo, quando la stagione secca è al culmine e le erbe si trasformano in un’esca che attende solo una scintilla per divampare, i cacciatori circondano un gruppo di elefanti ( o altre prede) e danno fuoco alla paglie. L’appiccare il fuoco viene eseguito in tempi diversi, dai vari gruppi, tenendo conto del vento, in modo che gli animali si trovino intorno una barriera di fiamme senza varchi.

I normali bush fires, sono un evento abituale nell’ecologia della savana. Pur facendo delle vittime, specialmente piccoli animali che non fanno a tempo a mettersi in salvo o che trovano rifugio in buchi troppo superficiali per sfuggire al calore, e specialmente milioni di insetti e piccoli roditori che, messi in fuga dalle fiamme, vengono predati a man bassa da stormi di uccelli che roteano in paziente attesa dei...profughi ai bordi dell’incendio , non sono temuti dagli animali selvatici, che sanno, comunque, come regolarsi e quali sono le direzioni di fuga. Per contro, questi incendi provocati a bella posta ed in modo da non lasciare scampo, sono micidiali.

Accecati dal fumo ed ustionati, pazzi di dolore e di paura, gli animali soccombono ben presto e non era raro vedere zanne annerite dal fumo e dal fuoco, in vendita, in giro per l’Africa, specie nei villaggi. Ne vidi alcune presso Ouanda Jallè, e non si trattava certo di zanne di animali adulti.

In Uganda, ad esempio, diversi metodi di caccia si alternavano a seconda delle stagioni: la Dwar lino ( caccia col fuoco) era il metodo della stagione secca, usato dalla tribù degli Acholi, mentre la Dwar arum, o caccia con le lance, è tipica della stagione delle grandi piogge.

 

TRAPPOLE PER COCCODRILLI

 

Una delle più ingegnose trappole usate per catturare i coccodrilli è quella che vidi a più riprese in Mozambico e che ho descritto nel mio romanzo Dendroaspis:

“..........indicò loro una strana struttura in legno, parzialmente nascosta tra i falaschi e da cui proveniva un puzzo indescrivibile.

Incuriositi,  si avvicinarono alla guida che, accoccolata sui talloni, osservava la strana costruzione di tronchi, tenuti insieme da corde in fibra di palma e raffia: si trattava di una gabbia lunga circa 4 metri, larga un metro ed alta altrettanto. L'estremità rivolta verso l'acqua era aperta, ma la parte inferiore dell'apertura era sbarrata da quattro paletti orizzontali che restringevano l'ingresso in senso verticale.

L'estremità opposta era invece chiusa e, appesi in una sorta di cesto sospeso al " soffitto ", ad una ventina di centimetri da terra, stavano gli avanzi organici responsabili di quel puzzo rivoltante: avanzi di pesce, carne ed interiora. Un'esca, con ogni evidenza.

" È una trappola per coccodrilli " spiegò Stephen ".

Vedete, il rettile, attratto dall'odore, entra nella gabbia ma è costretto a scavalcare i paletti, appiattendosi al massimo e facendo un po' di ginnastica..... poi avanza fino all'esca, che è sistemata sollevata dal suolo per impedire che insetti, formiche e granchi la divorino..... Quando si è rimpinzato, il bruto vorrebbe uscire, per andare a digerire in santa pace, ma non può, perché non ha lo spazio per voltarsi e non è in grado di uscire a marcia indietro perché quello sbarramento glielo impedisce: non riesce ad arrampicarcisi all'indietro, non ce la fa a manovrare la coda e le zampe posteriori per infilarsi in quel buco posto in alto..... ed è fregato!

Quando gli indigeni tornano a controllare, non resta loro che finirlo con le lance, attraverso le fessure ed in tutta sicurezza..... "

 

Per chiudere degnamente un argomento che parla di antiche cacce, vorrei riportare una recente scoperta archeologica che rivoluziona e contraddice la convinzione di molti che i popoli di cacciatori-raccoglitori siano la forma più primitiva di civiltà dell’uomo, mentre l’agricoltura e l’allevamento sarebbero collegati ad una civiltà più evoluta.

In Turchia, sui monti Tauro, è stato scoperto il più antico tempio mai costruito dall’uomo, risalente a ben 11.000 anni fa ( 9.000 a.C.), alla fine dell’ultima glaciazione, al cui confronto, le prime piramidi egizie sono addirittura recenti (2.500 a.C.) .

Il tempio consiste di ben 240 colonne antropomorfe, di forma a T, disposte in cerchi concentrici. Ogni monolito, accuratamente squadrato e sagomato, è alto quattro metri e pesa molte tonnellate ed è stato ricavato in una cava distante e trasportato sul luogo della costruzione. Su molte di tali colonne sono scolpite, in bassorilievo, figure di animali, tra cui volpi e serpenti e questa folla di figure è disposta in cerchi concentrici, quasi  ad onorare due monoliti più grandi, forse una coppia di divinità progenitrici. Gli archeologi hanno stabilito che questa stupefacente opera di ingegneria architettonica è, senza ombra di dubbio, stata realizzata da un popolo di cacciatori, tanto è vero che, nell’area, sono state rinvenute ossa di innumerevoli animali selvatici cacciati, tra cui gazzelle asiatiche, uri, cinghiali ecc. e nessun resto di animali domestici ne’ di ortaggi, semi, cereali o piante coltivate.

 

Siamo così arrivati alla fine di questa lunga carrellata su metodi venatori arcaici, tribali e...anticonvenzionali dell’Africa e spero di non aver annoiato più del lecito chi ha avuto la bontà di leggere, ma penso che per ognuno di noi cacciatori, inguaribili curiosi, anche questo sia interessante; un pezzo di storia della nostra passione. Anzi, a ben pensarci, è forse la dimostrazione che, vuoi per pura necessità di sopravvivenza, vuoi per passione venatoria pura e semplice, l’uomo è cacciatore, checchè ne dica qualcuno, da sempre e per sempre. Diciamo pure che questa parte della natura umana è ben viva in qualcuno, forse in chi più avverte la nostalgia del....richiamo della foresta, mentre è assopita o addirittura in letargo in altri,  ma questo nostro modo di vivere, perchè l’essere cacciatori non è uno sport o un hobby, ma una filosofia ed uno stile di vita, trova conforto nella diffusione, nello spazio e nel tempo, che il “fenomeno caccia” ha sempre avuto e continua ad avere.

 

 

 

 

 

Trappola a caduta per elefanti in foresta
Trappola a caduta per elefanti in foresta